Documento di sintesi
Ricondurre la Crocifissione di Viterbo alla lettera di ringraziamento della marchesa di Pescara al Buonarroti significa proporre l’unica soluzione in grado di dare ragione di un serrato corrispondersi di analogie.
Fermo restante il clima michelangiolesco, colto da Simona Rinaldi e Claudio Strinati, i contribuiti di Gianpaolo Serone ed Elisabetta Gnignera inchiodano la tavola al territorio e al contesto viterbese.
L’intervento di Antonio Rocca, in parte anticipato da questo articolo, mostra che le varianti rispetto allo schema replicato da Venusti corroborano l’idea di un legame tra l’opera e il dibattito immediatamente successivo alla pubblicazione del Beneficio di Cristo.
Né la distanza con lo stile michelangiolesco costituisce ostacolo, poiché essa, considerati i dubbi espressi in proposito dalla marchesa, si pone come condizione necessaria per proseguire l’indagine che deve accogliere la complementarietà tra anomalie inspiegabili se considerate separatamente.
Infatti, gli studi condotti da Claudia Pelosi, nel laboratorio di diagnostica mostrano immagini non visibili ad occhio nudo, ma solo agli ultravioletti o attraverso un vetro verde o azzurro, anomalia che solo può essere compresa integrandola con il criptico passaggio con cui la Colonna chiude la sua missiva: “io l’ho ben visto al lume et col vetro et col specchio”.
Per la Crocifissione può, pertanto, essere proposta una datazione compresa tra la pubblicazione e la condanna del Beneficio di Cristo, 1543-1544, periodo che coincide con l’intervallo tra la lettera con cui la Colonna richiede al segretario del cardinal Pole un vetro verde da consegnare a Michelangelo (1542-1543) e il rientro della Colonna a Roma (estate 1544).
Lettera di Vittoria Colonna a Michelangelo
Unico maestro Michelagnelo et mio singularissimo amico. Ho hauta la vostra et visto il crucifixo, il qual certamente ha crucifixe nella memoria mia quale altri picture viddi mai, né se pò veder più ben fatta, più viva et più finita imagine et certo io non potrei mai explicar quanto sottilmente et mirabilmente è fatta, per il che ho risoluta de non volerlo di man d`altri, et però chiaritemi, se questo è d`altri, patientia. Se è vostro, io in ogni modo vel torrei, ma in caso che non sia vostro et vogliate farlo fare a quel vostro, ci parlaremo prima, perché cognoscendo io la dificultà che ce è di imitarlo, più presto mi resolvo che colui faccia un`altra cosa che questa; ma se è il vostro questo, habbiate patientia che non son per tornarlo più.
Io l`ho ben visto al lume et col vetro et col specchio, et non viddi mai la più finita cosa.
Son al comandamento vostro,
La Marchesa di Pescara
Interventi
Santino Tosini, Diocesi di Viterbo
Francesco Aliperti, Archeoares S.n.c
Simona Rinaldi, Università degli studi della Tuscia di Viterbo
Gianpaolo Serone, Archeoares S.n.c.
Elisabetta Gnignera, Egidio 17
Claudia Pelosi, Università degli studi della Tuscia di Viterbo
Antonio Rocca, Egidio 17
Modera: Vincenzo Ceniti, Touring Club
Abstract
Riassunti degli interventi della conferenza del 13 gennaio 2016 presso l’Aula Magna del Liceo Scientifico “Ruffini” di Viterbo.
Gli estratti sono relativi solo ai contributi degli studiosi e posti in ordine di intervento.
Contributo di Simona Rinaldi
La prof.ssa Simona Rinaldi ricostruisce il percorso delle ricerche avviate nel corso delle lezioni di Museologia presso l’Università degli studi della Tuscia.
Il punto di partenza era superare l’idea che il dipinto fosse opera autografa di Michelangelo, ipotesi che inizialmente appariva forzata dal punto di vista stilistico, tecnico e storico. L’opera sembrava però riconducibile alla cerchia michelangiolesca o essere derivata da disegni del Buonarroti.
Furono quindi dapprima presi in esame gli studi di Antonio e Maria Forcellino (2010) sulle Crocifissioni dipinte da Marcello Venusti e tratte da disegni michelangioleschi, e poi il saggio di Maia Wellington Gahtan (2012) sulle testimonianze letterarie del Seicento e del Settecento su un “famoso crocifisso” michelangiolesco, presente a Napoli e poi giunto nella collezione di Luciano Bonaparte a Canino. L’incisione del 1812 testimonia che non si trattava del dipinto del Museo del Colle, la cui provenienza è attestata a Viterbo almeno dal 1725, e si mantenevano aperti numerosi quesiti irrisolti, cui le ricerche oggi presentate tentano di dare una prima risposta.
Contributo di Gianpaolo Serone
Gli edifici raffigurati sullo sfondo sono resti di un colonnato, una struttura a pianta circolare con delle colonne che ne decorano la parte esterna e, infine, una struttura che si sviluppa su più livelli.
Per l’archeologo Gianpaolo Serone è sembrato subito evidente che si trattasse di resti archeologici chiaramente identificabili in prossimità di Viterbo: le terme del Bacucco.
I resti odierni non permettono di apprezzare chiaramente questa relazione anche in considerazione del fatto che il paesaggio della tavoletta è un compendio di ciò che poteva essere effettivamente ammirato. Molti sono, però, i rilievi storici della struttura evidenziati anche nella recente pubblicazione di Alessandra Milioni “Le terme romane di Viterbo”. E’ noto, infatti, che i resti delle terme del Bacucco erano considerati nel XVI secolo come la testimonianza archeologica più importante del territorio viterbese e molti architetti ed artisti realizzarono rilievi puntuali: Antonio da Sangallo, Giorgio Vasari, Lorenzo Donati e, non ultimo, Michelangelo Buonarroti.
Oltre a ciò, la vista della città sullo sfondo è riconducibile a quella di Viterbo che si apprezza giungendo da nord, zona dove è ubicato il complesso archeologico del Bacucco.
L’identificazione delle strutture permette, dunque, secondo il dott. Serone, di legare strettamente la tavola alla città di Viterbo, cosa non scontata dato che le scarse fonti documentarie non permettevano di identificare il luogo di esecuzione dell’opera né la sua provenienza certa.
Contributo di Elisabetta Gnignera
Nella tavoletta viterbese emerge evidente una sorta di ‘anomalia’, insieme vestimentaria e iconografica, data dal colore rosa del drappo che cinge il Cristo; può, viceversa, legarsi ad una particolare concezione espressa dalla stessa Vittoria Colonna nelle sue rime spirituali: la Crocefissione di Cristo quale momento di gioia prefigurata (arra) nel dolore. Scriveva, infatti, la Colonna nei suoi versi: Porge l’aperta piaga alta e secura|Letizia, anzi arra dell’eterno riso,|E con lume divin ferma la fede.
Secondo la studiosa, il rosa del drappo di Cristo detiene qui lo stesso significato delle vesti liturgiche di colore rosa riservate alla terza domenica di avvento o domenica ‘gaudete’ e alla quarta domenica di quaresima o domenica laeaere: uno stadio mediano ‘gioioso’ in due periodi liturgici di penitenza nell’attesa della resurrezione del Cristo. Tale coltissimo riferimento presente nella tavoletta viterbese è rarissimo in raffigurazioni precedenti (quasi mai attestato) e in raffigurazioni posteriori le quali sembrano, anzi, disconoscere (come nel caso delle opere del Venusti) questa nuova, coltissima iconografia attuata nella tavoletta viterbese.
La dott.ssa Gnignera ha, infine, ritenuto fondamentale da analizzare sia la figura ammantata di rosso sotto la croce, la cui iconografia e gestualità sono compatibili con un San Giovanni Evangelista, sia la figura inginocchiata ai piedi della croce, identificata senza dubbi dalla stessa Gnignera in una Maddalena. Quest’ultima è stata determinante per la datazione abbigliamentaria, non tanto dell’intera tavoletta quanto della figura stessa, intorno alla metà del Cinquecento.
Durante la conferenza odierna, la studiosa darà conto compiutamente, alla luce di alcuni sorprendenti esiti delle indagini diagnostiche, delle apparenti ‘anomalie’ abbigliamentarie già emerse durante la precedente conferenza sulla tavoletta viterbese.
Contributo di Claudia Pelosi
L’opera è stata indagata attraverso le seguenti tecniche diagnostiche di tipo non-invasivo, senza contatto: riflettografia infrarossa; fotografia in infrarosso falso colore e in fluorescenza ultravioletta indotta; spettroscopia di fluorescenza dei raggi X (XRF).
La riflettografia infrarossa:
ha permesso di osservare come i capelli dei due ladroni siano meno definiti e folti rispetto al visibile. Ulteriori e più specifici dettagli della parte bassa sono poco apprezzabili a causa dell’impiego di colori scuri nel fondo. Il particolare che più risalta alla vista è che il volto della Maddalena appare abbozzato molto grossolanamente.
La fluorescenza indotta:
evidenzia la presenza di numerose micro e macro lacune, probabilmente “chiuse” in occasione di un restauro. Collocate su tutta la superficie del dipinto, sono ben riconoscibili poiché si mostrano in forma di aree dai contorni irregolari o linee, entrambe contraddistinte da un colore molto scuro. La stessa tecnica, inoltre, rileva alcuni particolari non ben distinguibili nel visibile quali il manto della Vergine dietro al lato destro della croce e il volto della Maddalena. Questo, in particolare, appare con caratteri più maschili rispetto all’immagine nel visibile, la forma del viso appare più smagrita, i capelli sembrano cadere sulle spalle in maniera più definita e chiara ed anche il collo, per un gioco di ombre, sembra mostrarsi più snello.
L’infrarosso in falso colore:
ha evidenziato come tutte le tonalità blu nel visibile (fondo e manto della Madonna) appaiono rosse nell’immagine IR falso colore. Il dato suggerisce l’impiego del lapislazzuli, pigmento molto prezioso, che si caratterizza proprio per questo viraggio nella suddetta tecnica.
Le tonalità rosse nel visibile (veste della Vergine e della Maddalena, perizoma di Cristo, guance e bocca della Maddalena) assumono nell’IR falso colore diverse sfumature di giallo: più brillante la tonalità delle vesti e dei particolari del volto; più chiaro, invece, il tono del perizoma di Cristo. Il dato potrebbe indicare la probabile presenza di cinabro/vermiglione.
L’analisi XRF:
ha permesso di riconoscere gli elementi chimici impiegati nella tavolozza pittorica e negli strati sottostanti. Tutti gli elementi chimici determinati riconducono a pigmenti pertinenti il periodo storico di attribuzione del dipinto (pigmenti a base di piombo quali biacca, litargirio, minio), pigmenti a base di ferro (ocre) e pigmenti a base di mercurio (cinabro/vermiglione).
A cura di Claudia Pelosi e Giorgia Agresti
Laboratorio di Diagnostica per la Conservazione e il Restauro “Michele Cordaro” dell’Università degli Studi della Tuscia (Direttore: Prof. Ulderico Santamaria)
Contributo di Antonio Rocca
Accolto, sulla base delle analisi tecniche e stilistiche sin qui condotte, che la Crocifissione di Viterbo è un’opera della metà del XVI secolo riconducibile alla cerchia michelangiolesca, si apre la possibilità di cogliere un legame tra detta tavola e la lettera con la quale Vittoria Colonna ringrazia il Buonarroti per una Crocifissione, definita viva.
Indicare tale nesso non significa enumerare una mera suggestione teorica, ma proporre la sola ipotesi che, al momento, è in grado di dare ragione di un sistema di anomalie complementari.
Le varianti che caratterizzano l’iconografia della Crocifissione di Viterbo, rispetto allo schema replicato da Venusti, sembrano tutte corroborare tale ipotesi. La versione del Cristo spirante in luogo della più comune col crocifisso vivo è infatti perfettamente coerente con la tesi centrale del Beneficio di Cristo (1543), il manifesto teologico dell’ecclesia viterbiensis.
Anche l’introduzione delle figure della Maddalena e dei ladroni entra in risonanza col Beneficio, testo in cui proprio i casi della Maddalena e di Tito, il ladrone buono, sono proposti come esemplari per testimoniare il primato della fede sulle opere nel raggiungimento della salvazione.
Se dunque le varianti iconografiche costruiscono un campo d’indizi via via più ficcante, paradossalmente sono le incongruenze evidenti che finiscono col proporsi come gli argomenti più convincenti a favore del riconoscimento di un legame tra la Crocifissione e la missiva. Il doppio volto di San Giovanni e il passaggio criptico nella lettera della Colonna: ”l’ho ben visto al lume et col vetro e col specchio” sono infatti incomprensibili l’uno disgiunto dall’altro.
La connessione strutturale tra la tavola e il Beneficio di Cristo, testo condannato dall’inquisitore Politi già nel 1544, suggeriscono le ragioni prudenziali che potrebbero aver indotto la Colonna a non condurre con sé, al suo rientro a Roma (estate 1544), la Crocifissione divenuta un’opera compromettente.