Il pittore e poeta Salvator Rosa è stato una delle più intriganti e controverse personalità del Seicento italiano.
Nato a Napoli il 21 luglio 1615, la sua vita e la sua opera hanno incantato e ispirato generazioni di studiosi e artisti. Figlio di Vito Antonio De Rosa, affermato architetto e agrimensore, e di Giulia Greco, appartenente a una famiglia di pittori, Salvator Rosa ha lasciato un’impronta indelebile nell’arte barocca e nella cultura del suo tempo.
Dalla sua giovinezza tumultuosa, segnata dalla perdita del padre nel 1621 e da un’educazione affidata alle Scuole Pie di Giuseppe Calasanzio, emerge l’immagine di un artista dal temperamento irrequieto e indipendente. Anche se Francesco Fracanzano e Aniello Falcone sono considerati i primi ispiratori di Rosa, la sua formazione rimane oggetto di dibattito tra gli studiosi. È tuttavia innegabile che la sua opera abbia risentito di svariate influenze, inclusa la veduta mozzafiato di Posillipo e Pozzuoli che è stata catturata con grande maestria nei suoi primi lavori.
Dopo un breve soggiorno a Firenze, dove dipinge per la corte dei Medici, Rosa nel 1638 si trasferisce a Roma. È qui che il suo genio sboccia pienamente e si fa notare per il suo stile unico e audace: la sua abilità nel rappresentare scene di battaglia che pongono l’accento sui paesaggi inquietanti e non sugli eroi attira l’attenzione di importanti mecenati, tra cui il cardinale napoletano Francesco Maria Brancacci e il re di Spagna Filippo IV. La capacità di Rosa di catturare l’essenza della natura e dell’esperienza umana trova espressione in opere come “Veduta del golfo di Salerno” e “Battaglia dell’Eurimedonte”, che ancora oggi affascinano gli spettatori di tutto il mondo.
La vita personale di Rosa è stata altrettanto avventurosa e drammatica. La sua relazione con Lucrezia Paolini, una donna già sposata, ha scatenato una serie di controversie e scandali che hanno infiammato la società romana: le loro vicende amorose hanno ispirato alcune delle opere più toccanti e intime di Rosa, tra cui il “Ritratto di Lucrezia” e l'”Humana fragilitas”. La tragica morte (1656) del figlio Rosalvo a causa della peste ha rappresentato un punto di svolta nella sua vita segnata inevitabilmente dalla disperazione e dal dolore.
Nonostante le sfide personali e professionali, il talento di Salvator Rosa è stato riconosciuto e celebrato solo nella posterità. Il suo lavoro resta un simbolo della lotta dell’individuo contro le forze oppressive della società e del potere, come testimonia la sua aspra critica sociale. Significative in tal senso sono scritti satirici come “Fortuna” e “Babilonia”, che prendono di mira le ingiustizie e le ipocrisie dell’epoca.
Sebbene le opere pittoriche di Rosa non siano state apprezzate dai suoi contemporanei, la sua fama è successivamente decollata nel periodo neoclassico e romantico. Il suo spirito precursore dei tempi moderni, unitamente alla grande capacità di coniugare nelle sue opere asperità, irregolarità e potenza soverchiante, ha sia anticipato la rappresentazione romantica di uno ambiente oscuro e drammatico sia espresso finemente la tensione perenne tra l’uomo e la natura: Rosa abbandona l’impostazione della pittura classica per concepire il paesaggio come universo infinito e imprevedibile.
La sua eredità artistica e intellettuale è stata profonda e duratura: le sue opere, mirate e studiate in tutto il mondo, hanno ispirato generazioni di artisti ad esplorare nuove forme espressive e a sfidare le convenzioni culturali e sociali alla ricerca della libertà e autenticità.
Salvator Rosa è stato attivo anche nella Tuscia. Il cardinale Francesco Maria Brancaccio, dopo aver assunto il ruolo di vescovo di Viterbo, lo incaricò della realizzazione di un’opera dedicata a San Tommaso per la chiesa della Confraternita dell’Orazione e Morte. Il dipinto, conosciuto come “L’Incredulità di San Tommaso” e inizialmente posizionato sull’altare maggiore, è stato trasferito nella chiesa di Santa Maria della Verità nel 1917, fino al suo definitivo collocamento nel Museo Civico di Viterbo, in seguito a un intervento di restauro realizzato tra il 1939 e il 1943. La tela, firmata orgogliosamente da Salvator Rosa con la dicitura “Salvator Rosa neapolitanus f.”, contiene persino un autoritratto dell’artista stesso, a testimonianza del suo attaccamento e della sua dedizione a questa importante commissione. Gli schizzi e gli studi preparatori che ci sono giunti, come il compositivo conservato nel Gabinetto Nazionale delle Stampe di Roma e lo studio del Cristo custodito nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, svelano l’accuratezza e la minuziosa pianificazione che ne caratterizzarono la realizzazione.
“L’Incredulità di San Tommaso” si distingue come uno dei pochissimi dipinti di Salvator Rosa destinati ad uno spazio pubblico, rappresentando non solo un’eccellenza artistica, ma anche un legame prezioso tra il pittore e la città di Viterbo.