IL CONTESTO SOCIALE
Il Cinquecento italiano è il secolo delle poetesse. Nel volgere di cento anni se ne contano più di quante non ne abbia conosciuto l’intera storia della letteratura fino a quel momento. Artiste privilegiate, che ebbero la possibilità di accedere agli studi e di poter approfondire scienza e coscienza. Si, perché ciò che mancò alle donne scrittrici non fu certo l’ispirazione o la volontà di far sentire la loro voce ma l’occasione di farlo in modo autonomo e socialmente accettato.
LA FAMIGLIA GAMBARA
Una delle poetesse che riuscì a mettersi in evidenza, conquistando un posto nella letteratura fu Veronica Gambara, appartenente ad una delle più potenti famiglie della prima età moderna. I Gambara ebbero nel territorio bresciano vastissimi possedimenti feudali, privilegi e onori principeschi; riuscirono a costruire la loro fortuna attraverso una politica di legami matrimoniali e di carriere ecclesiastiche di alto livello (basti pensare al cardinale Giovan Francesco, vescovo di Viterbo dal 1566 al 1576 e nipote della poetessa Veronica). Ma al di là dell’immagine guerriera che traspare dalla documentazione che riguarda questa famiglia, emerge con vigore l’aspetto raffinato ed estetico e un’assidua frequentazione del mondo delle arti.
VERONICA GAMBARA MADRE E MOGLIE
E’ all’interno di questo clima che nasce nel 1485 a Pralboino, Veronica Gambara, colei che sarebbe diventata la “signora” di Correggio; la cui fama è legata alla letteratura non meno che alla storia civile. Figlia del conte Gianfrancesco e di Alda Pio, della famiglia dei signori di Carpi, poche notizie esistono sulla sua infanzia e sulla sua educazione. Apprese il latino e fu precoce nell’esercizio poetico; più tardi, negli anni della maturità, rivolse il suo interesse anche alle lettere sacre.
L’evento decisivo nella vita di Veronica fu il matrimonio con il conte Giberto da Correggio; per celebrare il quale si dovette attendere la dispensa papale emessa nell’ottobre del 1508, a causa dei vincoli di consanguineità che legavano i due sposi. L’anno successivo si trasferì a Correggio e diede alla luce due figli, nati a distanza di un anno l’uno dall’altro.
Purtroppo nel 1511 Veronica si recò nuovamente a Brescia per i funerali del padre; in quel periodo la città insorse contro il dominio francese e la famiglia Gambara, che appoggiava il governo straniero, scampò ai linciaggi trovando rifugio nella rocca del castello di famiglia. Qui si nascose per alcuni mesi finché la ribellione non fu domata grazie all’intervento delle truppe francesi, guidate da Gaston de Foix (15 febbraio 1512).
VERONICA GAMBARA SIGNORA DI CORREGGIO
Nel 1518 morì il marito Giberto ma Veronica decise di non risposarsi. Fu assorbita dalle cure dell’amministrazione dello stato e della sistemazione della prole. Avviò Ippolito, il figlio maggiore, al mestiere delle armi, mentre Girolamo abbracciò la carriera ecclesiastica. Sul piano politico la Gambara si dimostrò piuttosto lungimirante: l’indipendenza della piccola contea di Correggio andava preservata attraverso trattati e atti diplomatici. Abbandonò il tradizionale legame filofrancese e si avvicinò al partito imperiale: nel 1520 il feudo, infatti, ricevette una nuova investitura da Carlo V.
Nel 1529 si trasferì a Bologna, governata dallo zio Uberto. Qui ebbe modo di intensificare le frequentazioni con i più celebri letterati del tempo come Molza, Cappello, Mauro e Trissino. A partire dagli anni Quaranta Veronica poté concentrarsi sugli ozi letterari, in quanto il feudo passò nelle mani del figlio. Si spense il 13 giugno del 1550.
GLI SCAMBI EPISTOLARI CON PIETRO BEMBO E VITTORIA COLONNA
L’intellettuale correggese Rinaldo Corso, che le fu familiare, redasse dopo la morte della Gambara un profilo biografico. La descrisse come una donna corpulenta e austera, incline agli studi e alla meditazione, indifferente agli svaghi e alla vita all’aperto; era però affabile, misurata e gradevole nella conversazione. Intrattenne una corrispondenza intensa e ricca di spessore con diversi letterati; ma non si curò mai di conservare le lettere, la gran parte delle quali furono disperse. Solo l’interesse fiorito in clima erudito sette-ottocentesco intorno alla sua scrittura privata ha consentito una ricostruzione parziale di nuclei di lettere o di lettere sparse in archivi locali o familiari.
Le perdite maggiori riguardano il carteggio con Pietro Bembo e le lettere scambiatesi con Vittoria Colonna, i membri della casa Gonzaga, Isabella d’Este e i Farnese. Nella corrispondenza con il Bembo, le dieci lettere sopravvissute testimoniano un rapporto di reciproca stima e devozione, in cui il letterato non esitava ad aprire il suo animo alla corrispondente; Veronica, d’altro canto, sottoponeva al suo esame i propri componimenti con il rispetto dovuto a un maestro, ricevendone apprezzamenti e giudizi lusinghieri. Nel complesso la dimensione privata e intimista che caratterizza la scrittura epistolare della Gambara lascia una testimonianza autentica, sostenuta da un eccellente livello stilistico, della consuetudine di civile conversazione tipica del mondo cortigiano cinquecentesco.
LA FIGURA DI VERONICA NELLA LETTERATURA DEL XVI SECOLO
Il rilievo della Gambara nella letteratura del XVI secolo è principalmente legato alle rime. Ma, non diversamente dalle lettere, la poetessa non si curò di dare un assetto organico ai suoi versi; questi, purtroppo, giacciono dispersi nei manoscritti e in circa 80 raccolte di poesie tra il 1505 e il 1754. Le sue rime riflettono l’esigenza di comunione intellettuale raffinata ed elegante. Si ispirano ai registri tematici e stilistici della lirica petrarchistica contemporanea, che la poetessa acquisì grazie agli insegnamenti del Bembo; ne è un esempio la tematica amorosa, espressa attraverso un livello più spirituale e intimista.
Accanto all’altro motivo ricorrente della contemplazione della natura, non mancano componimenti legati a circostanze più esterne o destinati a personaggi con cui la Gamabara fu in relazione. Anche il nucleo di rime sacre ben testimoniano l’equilibrio tra l’impronta spirituale insita nella corrente petrarchistica e i sentimenti religiosi autentici che animavano la “signora ” di Correggio.
Sara Catanese