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Targa commemorativa della santificazione avvenuta nel 1982 (Via dei Mille – Viterbo)

Crispino nacque a Viterbo nel 1668 con il nome di Pietro Fioretti; fu educato dalla madre ad una fede semplice ed ingenua. Battezzato dai Carmelitani, per volere dello zio, studiò grammatica dai padri Gesuiti e poi andò a lavorare come calzolaio. Devoto alla Vergine, decise di diventare frate cappuccino tra i francescani, allora molto presenti a Viterbo. Santa Rosa e Santa Giacinta Marescotti erano sante viterbesi francescane; ma lo era anche san Bernardino da Siena che aveva costellato la città del monogramma del nome di Gesù.

Così il 22 luglio 1693 Pietro indossò l’abito religioso dei cappuccini e cambiò il nome in fra’ Crispino da Viterbo. Data, però, la sua piccola statura e la sua eccessiva magrezza, non risultò immediatamente idoneo alla vita da frate. Dunque il noviziato per Crispino fu pieno di prove dirette ad accertare la resistenza fisica e spirituale che aveva. Venne destinato alle faccende domestiche del convento, alla cucina, alla coltivazione dell’orto e ad imparare arti e mestieri. Durante tutto l’anno di noviziato la comunità formativa espresse il proprio parere sulla vita di questo frate. All’ultima votazione del 1694, Crispino risultò idoneo all’esperienza cappuccina; finito l’anno da novizio ed emessa la prima professione dei voti, fu mandato nel convento di Tolfa. Nel 1697, dopo un breve periodo al Convento di Piazza Barberini a Roma, fu destinato ad Albano. Dopo sei anni fu mandato a Monterotondo; dal 1710, e per ben quarant’anni, stette ad Orvieto con il ruolo di questuante. A proposito di Orvieto, Crispino la considerò la sua città di adozione. Se ne allontanò nel 1715 perché destinato al convento di Bassano Romano; nel 1744 per stare qualche mese a Roma; poi definitivamente nel 1748 quando fu trasportato nell’infermeria dei cappuccini a Roma, dove morì nel 1750.

 

Curiosità e aneddoti

Crispino non ebbe mai una salute florida, era mingherlino e soffrì di podagra, di chiragra e di reumatismi.

Questo, però, non gli impedì di girare, di conoscere tutti, di aiutare chiunque avesse bisogno. Salvò molti neonati abbandonati, portandoli negli ospedali più vicini. Tra questi c’è anche Crispinello; era un bambino che aveva trovato fuori la porta del convento, a cui si interessò per tutta la vita. Quando lo incontrava per le strade di Orvieto, diceva sempre: “Ecco il mio Crispinello!”.

Era molto attento anche agli animali; amava, ad esempio, ascoltare i canti degli uccelli che riteneva essere lodi per la Madonna. Egli stesso si definiva abitualmente “l’asino dei frati”.

Ma le due costanti della vita di fra’ Crispino furono la pulizia e la costruzione di altarini per la Madonna.

La preoccupazione del frate non era senza significato: al suo tempo l’igiene era trascurata e bastava poco per provocare un’epidemia. Aggiungendo il fatto del suo essere cagionevole, la sua attenzione alla pulizia indicava rispetto e ordine interiore.

Per quanto riguarda gli altarini che costruiva un po’ ovunque, dobbiamo tornare alla sua infanzia. Un giorno, infatti, la madre lo portò nel santuario viterbese della Madonna della Quercia. Lì gli mostrò l’immagine di Maria dipinta su una tegola e il piccolo Pietro ne rimase colpito. Da quel momento nacque in lui una semplice ed affettuosa devozione alla Madre di Dio. Quando realizzava queste edicole, poneva davanti all’immagine sacra semi cosicché gli uccelli potessero andare a “cantare” proprio lì.

Un’altra sua caratteristica è che, essendo viterbese, aveva il gusto della battuta breve ed incisiva. Spesso componeva sentenze in rima facili da memorizzare che regalava come perle di saggezza:

La divina provvidenza

più di noi assai ci pensa.”

 

L’immagine di Fra’ Crispino di Domenico Corvi

Il dipinto più famoso che ritrae Crispino si trova nel refettorio del convento dei cappuccini di Via Veneto a Roma; venne realizzato dal pittore, frate anche lui, Luigi da Crema.

È degli anni ’70, invece, l’attribuzione a Domenico Corvi di una tela con San Crispino, conservato al Museo Civico di Viterbo.

L’individuazione del ritratto, quale probabile lavoro del Corvi, è stata possibile grazie al rinvenimento di un’incisione pressoché identica.

In basso si trova il nome di Corvi come inventore-pittore e quello di Pietro Campana come incisore. Nella stampa, inoltre, Crispino viene definito solamente Frate permettendoci di collocare l’incisione intorno al 1750, subito dopo la sua morte. Crispino, infatti, è definito “Servus Dei” già nel 1750, cioè la prima qualifica del processo di beatificazione; l’incisione, quindi, deve per forza essere precedente a tale nomina.

L’immagine, eseguita prima su tela e poi riprodotta a stampa, va a collocarsi nella fase iniziale della produzione del Corvi. Il dipinto a livello compositivo presenta quei sapori emiliani a lui trasmessi dal primo maestro Francesco Mancini; in questo senso si noti il garbo con cui fra’ Crispino si volge verso l’ipotetico osservatore del quadro.

Il rapporto della tela con l’incisione permette di approfondire il legame di Corvi con il settore delle riproduzioni a stampa. La scelta di praticare tecniche artistiche diverse, ma connesse con la pittura, servì all’artista per sostentarsi i primi tempi a Roma. La prima parte della sua attività lo vide impegnato proprio in questo campo e, soprattutto, ancora dipendente dall’ambiente viterbese.

Risale a questo stesso periodo il pregevole dipinto raffigurante San Giovanni Evangelista, oggi al museo Colle del Duomo.

Il San Crispino, dunque, può considerarsi il coronamento della prima fase formativa del pittore viterbese; a questa seguiranno lavori di maggiore impegno nel settore della pittura, un po’ in tutta Italia.

 

Bibliografia

Tratto da Speciale San Crispino in Biblioteca e Società Viterbo 4 Anno XXVII 2008

 

Elena Cangiano

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