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Nella primavera del 1944 giornalisti, scrittori, letterati, artisti iniziano a radunarsi nella casa romana della scrittrice Maria Bellonci. Li chiamano gli “Amici della domenica”; ed è in seno a questo gruppo che il 17 febbraio del 1947 nasce il premio letterario che nel primo dopoguerra doveva contribuire alla rinascita culturale italiana. Al premio venne dato il nome del liquore prodotto dall’azienda di famiglia di uno dei suoi ideatori e mecenati: Guido Alberti; il liquore si chiamava Strega. Da allora il premio Strega è stato indice dei gusti letterari del nostro Paese, incoraggiando i lettori italiani a leggere sé stessi, la loro storia e il loro presente attraverso lo specchio della narrativa contemporanea. Anche quest’anno gli “Amici della domenica” si sono riuniti in due successive votazioni. La prima, a giugno, in casa Bellonci; la seconda, quella decisiva, al Ninfeo di Villa Giulia, a Roma, il 5 luglio, che ha proclamato  “La ragazza con la Leica”, edito da Guanda, il romanzo vincitore. L’autrice è una valente scrittrice tedesca naturalizzata italiana, Helena Janeczeck; figlia di due ebrei polacchi, che subiscono sulla loro pelle la violenza della guerra e della persecuzione, Helena si trasferisce a Milano nel 1983. Il suo cognome non è quello vero della famiglia, costretta ad adottarne uno falso per andare avanti e ricrearsi una vita, un futuro. A casa la Janeczeck ha dovuto fare i conti con il silenzio di due genitori che rifiutavano di ricordare un passato troppo doloroso; così trova nella scrittura il coraggio di affrontare questo vuoto di parole. Inizialmente compone poesie in tedesco; a partire dagli anni ’80 del Novecento sceglie l’Italia come sua nuova casa e l’italiano come la lingua attraverso cui comunicare ma soprattutto scrivere. Probabilmente è proprio questa sua migrazione linguistica che fa della vittoria di Helena allo Strega un evento storico. La letteratura italiana è per la prima volta così dichiaratamente multiculturale, in un periodo in cui ci si dimentica di essere tutti, nessuno escluso, figli di migrazioni.

La ragazza con la Leica è la storia di Gerda Taro, la prima fotoreporter donna ad aver perso la vita in guerra, schiacciata dai cingoli di un carro armato il 26 luglio del 1937, pochi giorni prima di compiere 27 anni, in una strada polverosa di Brunete, piccolo comune dove si combatteva fino all’ultimo sangue durante la guerra civile spagnola. Era una donna irriverente, sfrontata e affascinante così come ci viene da pensare guardando la copertina del libro, in cui Gerda ci fa l’occhiolino, ci sorride, ci sfida. Nasce a Stoccarda nel 1910 da una famiglia ebreo-polacca (origini che condivide con la Janeczeck); il suo vero nome è Gerta Pohorylle. E’ una donna ribelle, fedele a sé stessa e ai suoi ideali, tanto che a 23 anni si fa arrestare con l’accusa di aver distribuito volantini antinazisti a Lipsia. Nel 1933, uscita di prigione scappa a Parigi, dove scopre la fotografia e incontra Andrè Friedmann, un giovane fotografo ungherese, anche lui di origini ebraiche. I due si innamorano e lei inizia a collaborare con lui. Il nome con cui oggi lo conosciamo è Robert Capa e appartiene al più grande fotoreporter della storia. A inventarlo era stata la stessa Gerda che si era inventata una nuova vita e un nuovo nome anche per sé: Gerda Taro. La Janeczeck racconta la biografia della donna come una figura che riemerge dalla memoria delle tre persone che le sono state accanto e che con lei hanno condiviso le difficoltà, le speranze, la giovinezza. Willy Chardack, detto il Bassotto, studente in medicina rifugiato a Parigi, innamorato senza speranze di Gerda; Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, a cui si deve l’incontro della fotografa con il futuro Robert Capa; e George Kuritzkes, amante e amico, il primo a introdurre Gerda alla politica e alla militanza. Con i narratori scopriamo le difficoltà che incontravano i rifugiati di origine ebraica nella Parigi degli anni Trenta; ma anche il fermento sociale e culturale di una città che nelle sue strade e nei suoi caffè raccoglieva una gioventù piena di speranza e di libertà. Gerda apparteneva a quella gioventù, una donna forte come la verità, lontana da ogni luogo comune e costrizione, padrona della propria vita. Nel 1936 lei e Capa, convinti sostenitori della causa spagnola, si uniscono alla lotta dei repubblicani e delle Brigate Internazionali, documentando quanto accade; sono sempre in prima linea al fianco dei miliziani con due macchine fotografiche, una Rolleiflex e una Leica, che spesso si scambiano, tanto che di molte foto è ancora incerta la paternità.

“Se una foto non è buona non eri abbastanza vicino” (Robert Capa). La biondina di Brunete, così soprannominata per i suoi capelli corti e sbarazzini, si era avvicinata troppo. Gerda diventa l’esempio concreto di una delle più celebri frasi pronunciate dal suo compagno. Al suo funerale partecipano più di 100.000 persone; Pablo Neruda legge l’elogio funebre e in sottofondo suona la marcia di Chopin. Eppure, neanche un anno dopo, in pochi sembrano ricordarsi di lei e del suo contributo al mondo della fotografia. A Helena Janezeck va il merito di aver tirato fuori dall’oblio, attraverso un lungo lavoro di documentazione, una donna dal carattere di ferro; e di aver raccontato nel suo romanzo la sua assenza, come se Gerda fosse un motore invisibile e un catalizzatore di destini altrui.

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